IMPARARE A GUARDARE IL MONDO CON GLI OCCHI DI PAPA FRANCESCO

Arturo Sosa Abascal, Preposito Generale della Compagnia di Gesù. Introduce Emilia Guarnieri, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli.

Imparare a guardare il mondo con gli occhi di Papa Francesco

Arturo Sosa Abascal, Preposito Generale della Compagnia di Gesù. Introduce Emilia Guarnieri, Presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli.

 

EMILIA GUARNIERI:

Benvenuti a questo incontro, a cui abbiamo tenuto e teniamo tanto, perché è un grande onore avere con noi il Preposito Generale della Compagnia di Gesù, Arturo Sosa Abascal, che accogliamo con un grande applauso. È un grande onore, ma è anche un grande desiderio di conoscere e di imparare, quello che ci ha mosso a invitarla, perché nel titolo del suo intervento c’è proprio questa idea dell’imparare, “Imparare a guardare il mondo con gli occhi di papa Francesco”. Imparare, conoscere… credo che sia un tema che in questo Meeting stiamo cominciando a delineare. A me piace, forse per il mestiere che ho sempre fatto nella vita, a me piace sottolineare parole che aiutino a cogliere la vastità e la complessità di questo Meeting, di questo evento fatto di tanti aspetti diversi. Ieri mi ero permessa di sottolineare la parola relazione, rapporto, oggi mi permetto di sottolineare la parola conoscere, perché credo che questo Meeting stia dando un contributo anche in termini di conoscenza, perché non esiste incontro, non esiste dialogo, non esiste relazione che non nasca da un desiderio di conoscenza, perché è solo la conoscenza che rende stabile, è solo la conoscenza che consolida, è solo il conoscere e il giudicare che consolidano l’esperienza del rapporto. Viviamo in un mondo, in una cultura dove domina l’istintività, la casualità, dove domina la paura nei confronti di ciò che è nuovo, di ciò che è diverso e noi oggi qui abbiamo invece proprio “il maestro del discernimento”. I gesuiti sono i maestri, il discernimento è la grande parola chiave della Compagnia di Gesù. Credo che proprio questo tema del discernimento ci avvii, ci introduca dentro questa parola chiave, questa seconda parola chiave che è a me piace sottolineare, che è proprio la parola conoscenza, conoscere. Noi oggi vogliamo imparare a guardare il mondo con gli occhi di papa Francesco. Nell’invito a lei, ci sono state due suggestioni che ci hanno guidato: da una parte proprio il fatto che questo Pontificato è stato ed è una novità grande per tutti, uno sguardo a questo mondo nuovo e cambiato, in cui Papa Francesco ci sta accompagnando. Noi vorremmo veramente imparare sempre di più a usare gli occhi come li usa papa Francesco, e questa quindi è la prima grande suggestione che ci ha portato all’invito a lei; poi ce n’è un’altra che, – adesso quando dirò qualcosa sulla sua biografia sarà più chiara per tutti – è questa: viviamo in un tempo in cui c’è una grande crisi, c’è anche questa grande disaffezione nei confronti della politica. La politica è qualcosa di così alto e di così grande, è uno strumento che gli uomini hanno sempre usato sin dai tempi antichi per vivere, per convivere, per governare, oggi è come se non tanto fosse demonizzata, ma è come se la politica fosse qualcosa che non interessa più a nessuno, tanto non ha più queste caratteristiche di altezza e di nobiltà: ecco vorremmo da lei reimparare ad amare la politica. Perché è anche questa la suggestione che ci ha portato a lei? Perché nella sua storia, nella sua esperienza, abbiamo ravvisato quanto lei sia su questi temi. Padre Sosa, venezuelano, ha sempre vissuto questo grande gusto della bellezza di aiutare gli altri ancor prima di entrare nella Compagnia, sempre interessato a quello che poteva migliorare le condizioni del suo Paese, tant’è che dopo la formazione filosofica e teologica, ha conseguito anche un dottorato in Scienze politiche all’Università statale del Venezuela. È stato coordinatore dell’apostolato sociale della provincia del Venezuela, ha guidato un centro di ricerche e azione sociale dei gesuiti in Venezuela, oltre che naturalmente, come ogni grande e bravo gesuita, essersi distinto sul versante accademico come docente. È stato superiore provinciale della Compagnia di Gesù in Venezuela dal ’96 al 2004, ha ricoperto tanti altri incarichi nella Compagnia e il 14 ottobre del 2016 è stato eletto Superiore generale. La sua storia, la sua biografia ci dice della sua propensione per il sociale, per l’affronto delle questioni con cui gli uomini hanno a che fare nel Governo della cosa terrena. Queste sono un po’ le suggestioni, l’immagine, il retroterra che c’è dietro a questo invito che, ripeto, nasce proprio da questo bisogno di sapere e di conoscere e di capire ancora di più. Onoratissimi di questo, padre, la ringraziamo e ora la ascoltiamo.

 

ARTURO SOSA ABASCAL:

Buongiorno. Voglio anzitutto esprimere il mio ringraziamento a ciascuno di voi e in particolare agli organizzatori del Meeting che mi hanno invitato, adesso ho conosciuto i motivi.

L’amicizia tra i popoli e tra le persone inizia sempre da un incontro, dall’ascolto reciproco e dalla condivisione di ciò che siamo e viviamo. È per questi motivi che ho accettato con gioia di essere tra voi oggi.

Per sviluppare il tema che mi avete proposto, desidero condividere con voi lo sguardo della Compagnia di Gesù sul mondo e le nostre preferenze apostoliche universali per i prossimi dieci anni. In questi ultimi due anni il corpo della Compagnia si è interrogato su come servire il Signore e la Chiesa nel tempo del pontificato di Francesco nel contesto sociale, politico ed economico che il mondo sta vivendo.

Il punto di partenza del nostro discernimento – che ha coinvolto tutte le comunità dei gesuiti e tutte le nostre opere apostoliche – è stata la nostra “unità nella diversità” di culture, lingue e tradizioni. Attualmente la Compagnia è composta da circa 15.600 gesuiti, sparsi in circa centodieci Paesi nel mondo, con un baricentro che, dall’Europa, si è spostato nella fascia che va dall’ America Latina, attraverso l’Africa e fino in Asia. Collaboriamo in ogni parte del mondo con migliaia di laici, altri religiosi e religiose, preti diocesani, uomini e donne impegnati nella stessa missione apostolica nei campi teologico e spirituale, culturale e sociale.

Questo ricco processo di ascolto e di discernimento mi ha permesso di presentare al Santo Padre quattro preferenze apostoliche universali, che vi leggo nel modo in cui le abbiamo formulate:

  1. Indicare il cammino verso Dio mediante gli Esercizi Spirituali e il discernimento.
    B. Camminare insieme ai poveri, agli esclusi del mondo, feriti nella propria dignità, in una missione di riconciliazione e di giustizia.
    C. Accompagnare i giovani nella creazione di un futuro di speranza.
    D. Collaborare nella cura della Casa Comune.

Nel 2003 la Compagnia aveva stabilito come preferenze il ministero in Cina e in Africa, il servizio dei migranti e rifugiati, l’apostolato intellettuale e le istituzioni internazionali della Compagnia a Roma. Richiamavano i cinque grandi bisogni della missione che si potevano gestire con l’aiuto del corpo universale della Compagnia. Questi bisogni rimangono una sfida per tutti noi e non vanno né trascurati né sostituiti.

Le quattro preferenze che vi ho letto sono invece “orientamenti” che mettono in evidenza il carattere spirituale della nostra missione. Non c’è una preferenza più importante di altre: tutte sono per noi una chiamata che tocca la nostra identità e vanno considerate e comprese insieme. Inoltre, non elencano nuove “cose” da fare, ma trattano della “ispirazione su come fare” e vivere la missione, all’interno di un orizzonte universale, da declinare nelle specificità dei luoghi in cui ci troviamo.

Nella sua lettera di conferma del 6 febbraio 2019, papa Francesco ha considerato che “il processo seguito dalla Compagnia per giungere alla preferenze apostoliche universali è stato (…) un reale discernimento”. Le preferenze proposte sono, secondo il Pontefice, “in sintonia con le priorità attuali della Chiesa, espresse attraverso il magistero ordinario del Papa, dei Sinodi e delle Conferenze Episcopali, soprattutto a partire dall’Evangelii gaudium”. Il Papa ha poi aggiunto: “La prima preferenza è capitale, perché presuppone come condizione di base il rapporto del gesuita con il Signore, la vita personale e comunitaria di preghiera e di discernimento”. Lo ha ribadito: “Senza questo atteggiamento orante il resto non funziona”.

L’esperienza di sant’Ignazio di Loyola ci insegna che ai problemi nuovi della Chiesa e del mondo non si possono dare risposte vecchie. Per riformare le istituzioni è necessario riformare il cuore di chi le governa. Egli è stato un “uomo-ponte” del secolo XVI, quello dei cambiamenti epocali, in cui gli spazi del pianeta e dell’umano si dilatano e bisogna costruire un nuovo mondo; Cristoforo Colombo ha appena scoperto l’America; con Copernico la scienza dimostra che è la terra a girare intorno al sole; sono i tempi di Lutero e del Concilio di Trento…

Nei cambiamenti d’epoca come il nostro, ogni riforma interna alla Chiesa inizia dal recuperare il rapporto con se stessi in relazione a Cristo, in comunione con il successore di Pietro. Le preferenze apostoliche universali sono state formulate secondo questo spirito, nascono dall’incontro con Gesù crocifisso, il cui amore dona uno “sguardo universale”. Ce lo ricorda il passo del Vangelo di Giovanni: “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv. 1,18). Occorre dunque “conoscere intimamente il Signore che per me si è fatto uomo, perché più lo ami e lo segua” (Esercizi Spirituali, n.104).

È per questo che il Papa ci ha chiesto di ripartire dalla spiritualità. Per la Compagnia, riporre al centro la cura della vita spirituale, secondo il carisma che abbiamo ricevuto, significa riattivare i processi, generare speranza, permettere di vedere il mondo nel modo in cui Dio lo guarda. I gesti, le parole e le scelte del pontificato di Francesco vanno letti con questo sguardo universale, che ricompone le tensioni, i fraintendimenti e gli interessi particolari.

 

  1. Indicare il cammino verso Dio mediante gli Esercizi Spirituali e il Discernimento.

La parola “discernimento” è una delle parole che caratterizzano questo Pontificato. Bisogna però comprenderla bene, per non fraintenderla nel senso di un “fare ciò che voglio” e giustificarlo.

Alcune tendenze delle culture contemporanee sembrano svuotare il discernimento dal suo significato antropologico, cioè dal senso di obbligazione verso gli imperativi della coscienza, dalla responsabilità verso i poveri che soffrono, infine, dall’obbedienza alla volontà di Dio. Solo nel discernimento si integrano la verità e la libertà, la legge e la responsabilità, l’autorità e l’obbedienza, che, dal latino ob-audire, significa ascoltare davanti all’Altro.

Il desiderio e la volontà di discernere non si danno per scontati. In genere non si tratta di un atteggiamento spontaneo o normale. Il discernimento non è semplice, anzi è un processo complesso che coinvolge tutta la persone e i gruppi che lo fanno. Perciò, occorre chiedersi: esiste una reale volontà di fare discernimento? Le tappe di questo processo sono riassunte dal Papa nell’Evangelii gaudium, quando cita i verbi: “riconoscere”, “interpretare”, “scegliere”.

Da quando, nel 1523, Ignazio di Loyola ha sistematizzato le regole del discernimento, queste sono diventate una grammatica comune offerta a tutti gli uomini di buona volontà. L’esperienza degli Esercizi spirituali porta a capire la vocazione a cui siamo chiamati per servire Cristo e quindi a scegliere liberamente di farlo. Mediante il discernimento si riescono a distinguere le seduzioni del male, incluso quando si rivestono di apparenza di bene, dai segni della presenza di Dio che opera nella storia umana. Il discernimento porta quindi a fare delle scelte sul senso della propria vita.

È nel discernimento che prendono forma le grandi domande della vita personale e della comunità cristiana e umana: chi sono chiamato a essere? Quale decisione è utile prendere come comunità di credenti per il bene di tutti? Come evitare il male sociale e costruire il bene comune?

Nella vita personale, come in quella sociale e politica, il discernimento aiuta la costruzione del bene comune: chi lo compie riceve in dono «coraggio, forza, consolazioni e pace», scrive Ignazio di Loyola nel libro degli Esercizi Spirituali. Attraverso il discernimento non ci si divide più tra credenti e non credenti, ma tra uomini morali e non, tra chi promuove il bene di tutti e chi semina paura e divisione. Ma c’è di più. Nel discernimento comunitario, i limiti delle crisi personali e sociali possono lasciar spazio alla vita che nasce dopo la morte e ai nuovi segni dei tempi.

La Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo è l’esempio di come i popoli e le nazioni abbiano fatto un discernimento maturo, mettendo al centro la dignità della persona. Purtroppo, in questi ultimi anni assistiamo a una contrazione dell’universalità dei diritti umani, vediamo cambiare il rapporto tra legge e potere. Gli esempi che potremmo fare sono molti. Dagli immigrati alla frontiera del Messico, ai viaggi della speranza nel Mar Mediterraneo, dagli esodi silenziosi delle popolazioni dell’Africa alle persecuzioni delle minoranze etniche dell’Asia e dell’America Latina, è il potere politico a decidere, di volta in volta, se anche le persone che non hanno diritto di cittadinanza possano godere dei diritti umani.

È la società secolare a sfidarci: per proclamare il Vangelo occorre superare sia i secolarismi sia la nostalgia per espressioni culturali del passato. Anche la società secolare è un segno dei tempi, che ci offre l’opportunità di forgiare la nostra fede nella storia. È il luogo in cui si aprono spazi nuovi per la libertà umana e, in essa, la libertà religiosa. È nella società secolare che nascono le condizioni per una rinnovata adesione alla sequela di Gesù negli ambienti sociali, economici, culturali e politici del nostro tempo.

 

  1. Camminare insieme ai poveri, agli esclusi del mondo, feriti nella propria dignità, in una missione di riconciliazione e di giustizia.

Per papa Francesco, il futuro dell’umanità passa dall’inclusione sociale dei poveri, dalla costruzione della pace e dal dialogo sociale (cfr. EG n.185). L’inclusione dei poveri non si dà dall’esterno. È possibile solo se loro decidono di farla. La condizione per costruire inclusione, giustizia e pace è “camminare insieme”. Francesco ne dà l’esempio. Non ci sono ricette teoriche, occorre camminare insieme. Per farlo però dobbiamo avvicinarci veramente ai poveri come persone, conoscere la loro vita e acquisire il loro sguardo sulla vita. In questo modo possiamo proseguire sulla strada percorsa da Gesù di Nazareth quando si è incarnato “povero tra i poveri”. Solo così possiamo guardare il mondo dal punto di vista dei poveri.

Le ingiustizie vanno riconosciute e chiamate per nome e le loro cause vanno studiate, per promuovere il cambiamento delle strutture economiche, politiche e sociali che le generano. Dobbiamo ammetterlo. Non è un compito intellettuale semplice capire fino in fondo le cause strutturali delle ingiustizie e delle condizioni inumane in cui versa la maggioranza degli esseri umani.

Sia la complessità della realtà sia le condizioni di chi la vive richiedono da parte nostra uno sforzo originale e sistematico.

La giustizia può essere nutrita dalla radice della vendetta o dalla radice della riconciliazione. La giustizia, come frutto della riconciliazione, è rimettere a posto le relazioni costruite su basi sbagliate, quelle tra le persone, tra i popoli e le loro culture, con la natura e con Dio.

Scrive Papa Francesco nell’Evangeli Gaudium: «Nella misura in cui Egli (Gesù) riuscirà a regnare tra di noi, la vita sociale sarà uno spazio di fraternità, di giustizia, di pace, di dignità per tutti. Dunque, tanto l’annuncio quanto l’esperienza cristiana tendono a provocare conseguenze sociali. Cerchiamo il suo Regno: “Cercate anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,33). Il progetto di Gesù è instaurare il Regno del Padre suo; Egli chiede ai suoi discepoli: “Predicate, dicendo che il Regno dei cieli è vicino” (Mt 10,7)» (n. 180).

La dimensione politica rimane di primaria importanza per promuovere la giustizia e la riconciliazione. Un mondo giusto e governato democraticamente richiede di essere autenticamente cittadini. Investire nella formazione alla cittadinanza ci aiuterà a rafforzare la democrazia politica, a promuovere le organizzazioni sociali impegnate nella ricerca del Bene Comune e ad arginare le nefaste conseguenze delle diverse forme del “neo-liberalismo”, del fondamentalismo e del populismo. Ogni persona è chiamata ad essere responsabile della sua cittadinanza e a educarsi in essa.

Sono necessarie persone che governino ponendo il bene comune al di sopra degli interessi particolari, anche se legittimi. Dal punto di vista cristiano, diventare un “politico” significa ascoltare e rispondere a una chiamata del Signore. È parte della missione di riconciliazione e giustizia scoprire, promuovere e formare vocazioni al servizio pubblico. È questa la politica con la “P maiuscola” di cui parla Francesco.

La missione di giustizia e di riconciliazione per la Compagnia di Gesù significa camminare secondo lo stile di Gesù insieme ai poveri, aiutando i migranti e le vittime del traffico di esseri umani, contribuendo all’eliminazione di ogni tipo di abuso, dentro e fuori la Chiesa. Non vi è ombra di dubbio: l’ingiustizia strutturale è collegata agli abusi di potere, sessuali e di coscienza. Promuovere la giustizia significa quindi contribuire effettivamente a sradicare ogni piaga di abuso.

Il mio predecessore, padre Pedro Arrupe, missionario in Giappone e Preposito Generale dal 1965 al 1983, ci ha insegnato che il servizio della fede e la promozione della giustizia sono due polmoni dell’unico corpo: senza la dimensione della fede, l’azione diventerebbe ideologica; senza la costruzione della giustizia, la testimonianza cristiana si limiterebbe alla gestione del culto. È anche sotto questo binomio, fede-giustizia che va compreso il Pontificato di Francesco.

 

  1. Accompagnare i giovani nella creazione di un futuro di speranza
    La rete educativa ignaziana accompagna ogni anno circa un milione di studenti nel mondo, se nel novero includiamo le scuole di Fe y Alegría. È per la Compagnia una grande responsabilità formare “uomini e donne con e per gli altri”. Le giovani generazioni cambiano velocemente: è passato mezzo secolo dal 1968 ad oggi, e i giovani del terzo millennio – per paura di perdere il poco che hanno conquistato da soli – solo di recente hanno ripreso a rivendicare insieme i loro diritti sociali. La loro generazione pone interrogativi all’intero sistema educativo e sociale: verso quale meta sono orientati? In quale modo accompagnarli? Quale dialogo è possibile?

La nostra missione è quella di preparare con loro un futuro di speranza. I poveri e i giovani sono diventati i “luoghi teologici”, i crocifissi del mondo attuale da cui può sgorgare nuova vita. Lo Spirito Santo ci parla oggi tramite i giovani. Sembra una provocazione, sapendo che la maggioranza di loro è composta da poveri. Ci parla quando li accompagniamo nei loro contesti vitali, quando ci immergiamo nelle loro angosce e sogni. Noi tutti siamo chiamati a un movimento di avvicinamento ai loro mondi vitali.

Più che parlare di «insegnamento» – il cui etimo ricorda un «mettere dentro» -, la Chiesa guidata da Francesco sta scommettendo sull’«educazione» dei giovani, e ciò nel senso più alto del «tirare fuori» da loro risorse, innovazioni e valori.

La dimensione dell’esperienza è una forma alta di accompagnamento del giovane: per la tradizione ignaziana, richiede una formazione continua, personalizzata, con l’aiuto di letture spirituali o studi scelti, la creazione di luoghi di ascolto, l’impegno nel servizio della società e giorni di preghiera e di silenzio da vivere durante l’anno per avere la possibilità di rileggere la propria vita.

La Compagnia di Gesù ha scelto di mettersi in ascolto dei giovani. A loro chiede di essere aiutata a capire la missione attraverso un aggiornamento, un “upgrade”, per essere provocata dalla loro ricerca di fede, dal loro linguaggio, dai loro affetti e dalle loro nuove pratiche, per creare un nuovo senso di appartenenza comunitaria che includa e non si esaurisca in quello che i giovani sperimentano, da soli e nella Rete. La sfida è creare insieme degli “spazi esistenziali” dove i giovani siano veri protagonisti, imparino a prendere delle decisioni e a guidare processi personali e comunitari.

 

  1. Collaborare nella cura della Casa Comune

Papa Francesco ha più volte affermato che l’Enciclica Laudato si’ è un’enciclica sociale. Non esistono, infatti, due crisi separate, una ambientale e una sociale, ma una crisi socio-ambientale. L’Enciclica ci invita a promuovere un nuovo modello di sviluppo umano integrale perché «tutto nel mondo è intimamente connesso» (LS, n.16).

Questa sfida ci chiama a proporre modelli alternativi di vita, sostenibili, basati sul rispetto della creazione e in grado di produrre e distribuire beni con giustizia, perché a tutti sia garantita un’esistenza dignitosa. Ciascuno di noi è chiamato ad abitare una doppia sfida: da una parte contribuire a creare alternative al modello esistente che mette a rischio la vita del pianeta e dall’altra a testimoniare uno stile di vita in cui emerga l’armonia con l’ambiente. Certo, serve il nostro impegno per i cambiamenti strutturali, ma sono urgenti anche i “piccoli cambiamenti” che incidono sui nostri stili di vita quotidiani come nell’uso della plastica, dell’energia, il tipo di trasporto, la scelta dei vestiti e così via.

L’ecologia integrale diventa così il paradigma capace di tenere insieme fenomeni e problemi ambientali (riscaldamento globale, inquinamento, esaurimento delle risorse, deforestazione, ecc.) con tutte le altre questioni della vita, come la vivibilità e la bellezza degli spazi urbani, i comportamenti virtuosi, il buon Governo delle città. Ancora di più, l’attenzione ai legami e alle relazioni consente di trovare nell’ecologia integrale una chiave per leggere la vita a tutti i livelli, dal rapporto con il proprio corpo (n. 155) alle dinamiche sociali e istituzionali: «Se tutto è in relazione, anche lo stato di salute delle istituzioni di una società comporta conseguenze per l’ambiente e per la qualità della vita umana […]. In tal senso, l’ecologia sociale è necessariamente istituzionale e raggiunge progressivamente le diverse dimensioni che vanno dal gruppo sociale primario, la famiglia, fino alla vita internazionale, passando per la comunità locale e la Nazione» (LS 142).

Per la Compagnia di Gesù, la cura di ecosistemi ormai fragili come la vita in Amazzonia, in India e in Indonesia e nei bacini del Congo è un modo di rendere un culto autentico all’opera creatrice di Dio.

La cittadinanza universale si costruisce attraverso una politica sovranazionale che privilegi la cooperazione sulla divisione, perché beni come l’acqua, l’aria, il suolo, il clima, siano affidati non alla gestione delle singole Nazioni, ma alla cura della comunità umana universale.

Fin dalla sua origine, la Compagnia di Gesù è stata formata da gesuiti di diverse culture e nazioni e che appartenevano a Stati tra loro in guerra. Questo sguardo universale, che supera le divisioni, nasce da tre esperienze: un’amicizia profonda con il Signore Gesù, lo studio e il servizio ai più bisognosi. Lo spiegano due immagini, che vorrei lasciarvi perché valide anche per noi, oggi.

Nella piazza del Collegio Romano, a Roma, si trovano l’antico Collegio Romano, fondato da S. Ignazio, in cui si preparava il clero di tutto il mondo, e una piccola casa, chiamata “Santa Marta”, in cui erano accolte e recuperate le prostitute. Lì si può capire cosa fosse la missione per Sant’Ignazio.

Seconda immagine. Quando papa Paolo III chiese a Sant’Ignazio l’invio di due gesuiti teologi per il Concilio di Trento, i padri Laínez e Salmerón si distinsero non solo per l’intelligenza dei loro contributi teologici, ma anche per la loro testimonianza di vita: partecipavano alle sessioni del Concilio alloggiando nell’ ospedale per assistere in tutti i tempi liberi gli ammalati.

Le preferenze apostoliche universali che ho voluto condividere con voi sono come semi, che per germogliare richiedono cura, preghiera, studio, servizio, testimonianza personale e di Corpo. Questo è un modo di essere Chiesa che papa Francesco conosce perché anche lui appartiene a questa nostra esperienza spirituale. Si tratta di un cammino, da compiere in collaborazione e in condivisione con altri Ordini e Congregazioni di religiosi, con il laicato e con i movimenti, come Comunione e Liberazione, dialogando in un costante processo dinamico e in stretta connessione tra noi.

Ci è richiesta la capacità di far prevalere la comunione sulle nostre differenze, e spostarci sempre alle “frontiere”, geografiche e intellettuali. Come due gambe, lungo la strada ci sosterranno la dimensione spirituale e quella intellettuale. Il resto lo farà la collaborazione tra noi, nella fedeltà al Vangelo e agli insegnamenti del Magistero. «Dio, che ci chiama alla dedizione generosa e a dare tutto, – scrive il Papa nella Laudato si’ – ci offre le forze e la luce di cui abbiamo bisogno per andare avanti. Nel cuore di questo mondo rimane sempre presente il Signore della vita che ci ama tanto. Egli non ci abbandona, non ci lascia soli, perché si è unito definitivamente con la nostra terra, e il suo amore ci conduce sempre a trovare nuove strade. A Lui sia lode!» (LS n. 245). Grazie per la vostra attenzione e la vostra pazienza.

 

EMILIA GUARNIERI:

Se avevamo desiderio di conoscere e di imparare un po’ di più a guardare il mondo con gli occhi di papa Francesco, credo che aiuto in questo senso ne abbiamo avuto e quindi la ringrazio moltissimo padre Sosa di quello che lei ci ha detto. Vorrei approfittare ancora un po’ di questa possibilità di conoscenza e di imparare che qui abbiamo, oggi. Vorrei chiederle questo: c’è questa insistenza, anche lei oggi ci ha riletto delle citazioni dalla Evangeli Gaudium; Papa Francesco non perde occasione per riproporci il Magistero dell’Evangeli Gaudium. Non solo ripropone, ma dice proprio “questo è il mio documento programmatico”, quindi non abbiamo dubbi su quello che ci dice. Ma perché c’è questa insistenza? Che cosa la Chiesa non riesce a seguire? In che cosa la Chiesa è ancora così rigida nel non andare dietro oppure nell’andare dietro faticosamente o tiepidamente a questo magistero che il Papa ha consegnato all’Evangeli Gaudium? Che cosa non stiamo capendo?

 

ARTURO SOSA ABASCAL:

Sono tante.

 

EMILIA GUARNIERI:

Già una bella risposta.

 

 

 

ARTURO SOSA ABASCAL:

Per me Evangelii Gaudium è una – non so se dire figlia o nipote – del Concilio Vaticano II. Papa Francesco, la sua originalità, viene dall’esperienza e coerenza con il discernimento fatto da tutta la Chiesa nel Concilio Vaticano II. Come sapete, il Concilio Vaticano II per la chiesa dell’America Latina è stato veramente un momento di rifondazione, direi di rinascita di tante iniziative di tutta la Chiesa Latino-Americana e lui ha fatto parte di questo processo come gesuita e poi come vescovo e arcivescovo. Penso che questa fatica che lui percepisce, sia una fatica che abbiamo vissuto come Chiesa durante cinquant’anni e che è un po’ diversa, dipende da dove si vive. Per esempio, nell’Europa, ho fatto qualche accenno nell’intervento precedente, io percepisco nell’Europa una nostalgia per il passato, un passato idealizzato, come se la società in Europa fosse veramente una società cristiana. Se dimentichiamo un po’ tutte le difficoltà della Chiesa europea, per esempio nel secolo XIII e successivi, si fa un’ideale e si vive una nostalgia di quel passato che non è esistito mai. Molto diversa è per esempio l’America Latina, che si è rinnovata a partire da un’esperienza coloniale per fare una chiesa inculturata. L’esperienza innovatrice della Chiesa asiatica, africana e latinoamericana, dopo il Concilio soprattutto ma anche prima, è stata questo sforzo tremendo dell’inculturarsi, di farsi vita in culture così diverse senza perdere il senso di comunità. Allora queste “vivenze” diverse sono lì, la chiesa è plurale, è comunione e non è uniformità, l’unità della chiesa non deriva dalla uniformità ma dalla comunione: cosa che non è chiara nella testa, nel cuore e nelle azioni di tantissimi cristiani, compresi vescovi e preti, che si rifugiano in un certo modo nell’uniformità invece che aprirsi all’unità. Penso che la principale preoccupazione di papa Francesco è che ci manca profondità spirituale. La Chiesa non cambierà se non si fa l’esperienza di Dio profondamente e se non si fa l’esperienza di Dio in modi così diversi come diversi sono i contesti e le situazioni che viviamo noi cristiani dappertutto. La profondità spirituale è la chiave, per questo si appella sempre al tema del discernimento, perché il discernimento è possibile solo dalla profondità spirituale e la conversione è possibile solo dalla profondità spirituale. Il discernimento, però, ci mette anche in contatto con la necessità della profondità intellettuale di capire, di avere informazioni, di essere aperti alla novità. Papa Francesco mi sembra molto sensibile a questo: se noi non siamo capaci di guardare il Signore e con lo sguardo del Signore guardare dove noi viviamo e lavoriamo e compiamo il nostro piccolo sforzo apostolico, non c’è Chiesa rinnovata.

 

EMILIA GUARNIERI:

In questo senso lei parlava per quanto riguarda l’Europa di una nostalgia, di un passato cristiano forse idealizzato, forse mai esistito. Vorrei domandarle questo: è proprio questa nostalgia di un passato idealizzato che magari si vorrebbe ripetere, si vorrebbe mantenere senza ripartire da quella che lei chiamava la profondità spirituale? Glielo domando perché iniziando questo Meeting, anche noi ci siamo interrogati e ci stiamo interrogando e sollecitando su questo: se non riaccade una profondità spirituale, se non riaccade l’avvenimento di un soggetto nuovo, se cerchiamo solo di ripetere delle formule, questo è destinato a morire. Volevo chiederle se è questo il tema.

 

ARTURO SOSA ABASCAL:

Questo è il tema, ma io direi che non è il tema detto in qualsiasi modo. Penso che questa profondità spirituale ci dovrebbe portare alla lettura dei segni dei tempi. Il Concilio Vaticano II ha insistito che il vero discernimento della Chiesa come comunità, come comunità di comunità, è saper percepire, leggere e seguire i segni dei tempi, perché lo Spirito Santo ci parla lì e noi non abbiamo altri modi che quello che il Signore continua ad essere tra noi. Come ci parla? Ci parla attraverso i segni dei tempi, i segni della storia. Allora noi dobbiamo essere sensibili, attenti a leggere e seguire lo Spirito in questo senso; per esempio nel nostro discernimento come corpo della Compagnia, abbiamo cercato di leggere la società secolare come segno dei tempi. Per esempio, nel linguaggio comune tra noi in Europa, in altri Paesi e ambienti cattolici del mondo, si parla della secolarità come qualcosa di cattivo, come il segno che abbiamo perso qualcosa, invece se lo leggiamo come un segno dei tempi, abbiamo un segno di speranza e non di disperanza. La società secolare forse è il nuovo spazio per vivere e diffondere la fede, per capire come lo Spirito lavora in questa nuova epoca. Penso che riprendere quello che il Concilio ha tanto sottolineato, di essere attenti come comunità ecclesiale ai segni dei tempi e saper leggere e attuare in concordanza con quelli, mi sembra che sia la grande sfida per noi.

 

EMILIA GUARNIERI:

Lei ha sottolineato anche il tema dei giovani, dicendo che papa Francesco ci richiama a guardare e a seguire i giovani. Anche i giovani di oggi, per quello che sono, sono uno di questi segni dei tempi? Come descriverebbe oggi questi giovani?

 

ARTURO SOSA ABASCAL:

L’esperienza del Sinodo sulla gioventù, l’anno scorso, è stata un’esperienza molto profonda a mio avviso. Nel documento finale di questo Sinodo dei giovani, non soltanto si parla dei segni dei tempi, si dice che i giovani sono il luogo teologico. Noi parliamo di due luoghi teologici: i giovani e i poveri e in questo caso convergono insieme. Allora, luogo teologico vuol dire: da dove posso io veramente capire come Dio lavora nel mondo odierno. Il Sinodo ha fatto una riflessione molto interessante e complessa su come sono i giovani e la conclusione è che non sono uguali, i giovani sono così diversi, a seconda dalla loro situazione sociale, politica, contestuale. Non è lo stesso un giovane che adesso lì sull’Open Arms o un giovane che studia a Oxford o un giovane che è sotto le bombe in Siria o un giovane giapponese che cerca di farsi un cammino, o i giovani che affollano le strade di Hong Kong in questi ultimi mesi. Per questo il Sinodo parla dei mondi, non parla del mondo giovanile, parla dei mondi diversi. Il primo approccio è riconoscere la complessità della situazione dei giovani, per poter veramente avvicinarli. Allora bisogna andare dove loro vanno, non si può fare una ricetta uguale per tutti, bisogna veramente in ogni circostanza, in ogni comunità cercare quali sono questi modi. Quello che ha sottolineato la riflessione del Sinodo, è che i giovani hanno in se stessi la sensibilità dell’epoca nuova, sono nativi della nuova epoca, noi siamo invece dell’altra epoca e bisogna per questo imparare da loro. Se noi non siamo in grado di stabilire questo collegamento con i mondi giovanili, perdiamo la possibilità di capire e di parlare tra noi, perché noi siamo parte della stessa società.

 

EMILIA GUARNIERI:

Grazie. L’ultimissima cosa padre, le avevo anticipato che l’avrei ulteriormente sollecitata su questo, perché oggi non è facile sentire parlare di politica in maniera alta e nobile come lei ha fatto oggi, come papa Francesco fa ripetutamente. E lei oggi ha ribadito anche questo. Siamo molto, in Italia sicuramente, forse non solo in Italia lei prima ci diceva, molto disabituati a questa visione alta, nobile, con la “p” maiuscola, come ha detto papa Francesco, della politica e questo ci porta spesso a stare al balcone, come lui ci ha detto. E c’è questo sentimento di disamoramento, come se la politica fosse qualcosa di non nobile e ultimamente qualcosa rispetto a cui porsi con un certo distacco. Che cosa ci può dire perché magari ci si possa rinnamorare della politica?

 

ARTURO SOSA ABASCAL:

Io penso che se prendiamo questa domanda dal punto di vista del Vangelo, dobbiamo capire che è una dimensione essenziale: non si può vivere il Vangelo, non si può essere servitori di Gesù se non si prende questa dimensione politica come la grande sfida di fare della politica il servizio più grande che si può fare all’umanità. Non fate come fanno questi politici che usano il potere per opprimere, non sia così tra voi! Voi fate questo come servizio agli altri. Il più grande servizio che si può fare, è gestire la società per garantire l’uguaglianza, per garantire i diritti umani, per garantire l’educazione, la sanità eccetera e non è facile. Gestire la società, avendo il bene comune come “nord” e avere il servizio che fai alla persona come vocazione, è veramente una delle professioni più difficili. Mi sembra che ogni cristiano debba prendere molto sul serio la responsabilità cittadina. Non si può essere cristiano se non ci si assume la responsabilità come cittadino. Non si può vivere il cristianesimo da soli, il cristianesimo non è una religione intimista, è una religione che si può vivere soltanto in comunità, ma la comunità non ha senso in se stessa, la Chiesa non è nata per se stessa, la Chiesa è nata per servire l’umanità, per condividere questo grandissimo dono che è la redenzione e la liberazione con tutti gli uomini. La grande liberazione è che tutti possiamo vivere come fratelli e sorelle, che possiamo avere una vita dignitosa, che possiamo abitare in pace dappertutto. È questa la politica: tutti come cittadini dobbiamo assumerci la responsabilità della città. Dopo, come ho detto prima, bisogna anche discernere le vocazioni e promuovere la vocazione al servizio pubblico.

 

EMILIA GUARNIERI:

Padre, grazie. Siamo veramente onorati e grati che il Meeting possa essere stato occasione per noi che siamo qui questa mattina, ma evidentemente anche per altri che potranno usufruire di quello che noi abbiamo ascoltato, per andare a fondo con questa sensibilità che noi vogliamo sempre di più imparare a seguire, che come lei ci diceva, è la sensibilità di papa Francesco. Prima di concludere, vorrei legare la sua presenza a quella dei nostri amici venezuelani, che lei prima ha avuto la bontà di voler conoscere. Mi permetto di dire della presenza dei nostri amici venezuelani che vivono una condizione quale è quella del Venezuela, che è veramente, estremamente drammatica. I nostri amici sono qui, qualcuno di voi avrà già avuto modo sicuramente di ascoltare all’inizio della mattina la sigla. La sigla di quest’anno è un canto venezuelano che, come ci diceva sia il padre sia gli amici venezuelani, i venezuelani quando lavorano cantano. Hanno inciso per noi un cd con i loro canti venezuelani sul lavoro, coinvolgendo anche importanti musicisti venezuelani. Mi ha molto colpito che prima, quando glieli abbiamo presentati, padre Sosa conoscesse già il maestro Bàez.

 

ARTURO SOSA ABASCAL:

È un grande musicista ma questo gruppo, Aquiles Bàez, ha promosso per anni in Venezuela la emergenza di musicisti giovani, che prendono la tradizione musicale e in qualche modo la rifanno ma senza perdere la radice, la tradizione antica

 

EMILIA GUARNIERI:

Padre, io la ringrazio tantissimo. Sono commossa. Questi amici sono qui, giovedì alle dieci alla piscina faranno il loro concerto, il loro cd è in vendita e quindi lo possiamo acquistare, ovviamente l’acquisto dei cd è un aiuto e un sostegno alla loro opera “Trabajo y persona” e sabato alle ore 15 ci sarà la testimonianza dal titolo: “Il bene comune. Testimonianza dal Venezuela”, dove gli amici ci racconteranno del lavoro che stanno facendo. Padre io la ringrazio ancora tantissimo, sono felice di aver potuto presentarla e introdurla, non meritavo un onore così, però siccome mi è capitato, sono contenta e la ringrazio.

Trascrizione non rivista dai relatori

 

190820 Imparare a guardare il mondo con gli occhi di papa francesco

Data

20 Agosto 2019

Ora

11:30

Edizione

2019

Luogo

Sala Neri UnipolSai
Categoria
Incontri